"Nel Fedone Platone ha prima di tutto delineato le linee fondamentali della sua metafisica, cioè la teoria delle Idee, la teoria dei Principi e la dottrina del Demiurgo. [...] "Socrate" vuole conoscere questo mondo e conoscerlo scientificamente, cioè nelle sue cause profonde. Per questo si rivolge ai fisici, per questo mostra grande interesse per Anassagora, per questo vive con grande frustrazione la scoperta della debolezza di una visione puramente fisico-materialista. Il piano fenomenico del corporeo, del sensibile, dell'empirico non trova in sé la propria giustificazione, non è autosufficiente, ma rinvia a un secondo piano dell'essere, quello che d'ora in poi sarà definibile come incorporeo, soprasensibile, metempirico, in una parola, il piano metafisico". Introduzione di Maurizio Migliori.
A che cosa serve la retorica sofistica? Si può definire un'«arte» (techne)? È rivolta a un fine? E quale? Socrate dimostra che la retorica dovrebbe opporsi all'ingiustizia, il peggiore dei mali: «Il fare ingiustizia è più brutto del riceverla» e anche più dannoso. Scontare la pena significa liberarsi dai mali commessi, e chi non riceve punizione è più infelice di chi la riceve. Un grande mito escatologico introduce riflessioni fondative per l'etica platonica: nemmeno la morte ci assolve dall'ingiustizia commessa: nell'aldilà l'anima dovrà affrontare un tribunale che condannerà gli ingiusti. La retorica e la politica dovrebbero aiutare i cittadini ad avere cura delle loro anime, e non preoccuparsi di salvare la vita fisica, perché ciò che conta «non è il vivere come tale, ma il vivere secondo giustizia».
Perfetto da un punto di vista stilistico, il Protagora è stato definito come "il dialogo delle contraddizioni", per la presenza di affermazioni paradossali e apparenti aporie, che ne costituiscono la magistrale struttura portante. Il giovane Ippocrate vuole affidarsi al celebre sofista Protagora, sedicente maestro di virtù politica: ma è "insegnabile" la virtù? Socrate lo nega, anche per mettere alla prova Protagora, che in un lungo e appassionato discorso sostiene, al contrario, che qualcuno, più eccellente degli altri nell'educare alla virtù, sia in grado di rendere migliori i giovani e possa, per questo pretendere un compenso. Ma non affronta il nodo fondamentale: che cos'è la virtù? Qual è la sua essenza? Utilizzando in modo sapiente e implacabile dialettica e ironia, Socrate costringerà l'interlocutore a un confronto serrato, nel quale emergerà che la virtù è scienza e conoscenza del bene e del male e che il vizio è ignoranza.
L'Eutifrone è un dialogo della giovinezza di Platone, che si svolge fra Socrate e il personaggio che dà il nome al dialogo sulla "santità". Eutifrone dovrebbe rispondere alle domande di Socrate su tale tema in modo adeguato, in quanto è un sacerdote. In realtà Eutifrone si rivela di capacità intellettuali, oltre che morali, assai limitate, e di conseguenza il dialogo non può che concludersi in modo aporetico. Le cinque definizioni dell'essenza del santo che Eutifrone presenta, si rivelano tutte quante inconsistenti e fallaci. Dovrà essere il lettore stesso a trarre le conclusioni, e Platone gli presenta le premesse necessarie per risolvere il problema in modo adeguato: il santo non è tale in quanto è caro agli dèi, ma è caro agli dèi per se stesso, ossia in quanto è santo. Il santo, dunque, per sua stessa natura, "è tale da venir amato, e per questo è amato". Il vero Dio (non quello della comune opinione dei Greci) ama il santo, in quanto il santo è, per sua stessa natura, un bene.
Critone, amico di Socrate, progetta il modo di far fuggire dal carcere il filosofo per sottrarlo alla pena di morte alla quale era stato condannato ingiustamente. Socrate respinge tale proposta e spiega le ragioni del rifiuto in un dialogo che tocca i grandi temi della sua riflessione filosofica. Il bene più alto non è la vita in sé, ma la vita moralmente buona e la fuga dal carcere sarebbe una ingiustizia contro lo Stato, come ricordano le Leggi stesse che Socrate fa intervenire nel dialogo. Nel Critone si sostiene una tesi che si può denominare "rivoluzione della nonviolenza": "Non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto (...), ma bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano, oppure persuaderle in che cosa consiste la giustizia, mentre adottare la violenza non è cosa santa, né nei confronti della madre, del padre, o della Patria".