
Ha un significato il colore? È il medesimo per tutti? Che relazione c'è tra i colori e la vita? Sono domande che possono apparire eccentriche, eppure non si può pensare una vita senza colori, una vita 'in bianco e nero' (anch'essi colori!). Come spiega Antonio Spadaro in queste pagine, il colore è uno dei canali attraverso i quali il mondo viene a noi, è un potente tramite di comunicazione, «giunge dall'esterno, da un oltre che offre il senso alle cose di qua, alla vita, agli oggetti. Il colore raggiunge l'artista che lo scopre, è l'intuizione di un mondo che deve ancora venire». Questo libro parla proprio di quattro artisti, protagonisti dell'arte statunitense del Novecento, e del loro percorso di ricerca attraverso il colore: Edward Hopper, Mark Rothko, Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat. Le loro opere sono come delle 'icone' che alludono a un 'oltre': icone dell'attesa, della luce, dell'altrove, del lato oscuro. Variazioni di una costante dell'esperienza umana: la vita è radicalmente colorata. Ha sfumature infinite, evidenti distinzioni e trame fitte di relazioni, fino a quello che la poetessa Mary Oliver ha definito lo splash of happiness: «Come potrebbe esserci un giorno nella tua intera vita che non abbia il suo schizzo di felicità?». E lo schizzo è sempre una macchia. Di colore.
Nell'arte del Novecento e contemporanea la spiritualità è motivo portante di molte creazioni. Al di fuori della specifica committenza di opere di destinazione religiosa, liturgica ed ecclesiale, un'arte fondata su ragioni interne al suo stesso linguaggio e sulla necessità di esprimere percorsi di ricerca interiore o di ascendere a tematiche universali e metafisiche si è manifestata come modello di una spiritualità indipendente, che si è confrontata specificamente anche con le ragioni e le possibilità del sacro. A partire dalle istanze che hanno motivato le origini dell'astrattismo, il superamento della materialità e il riemergere della forza del simbolo, è emersa l'importanza del vuoto, della luce e di altre forme di manifestazione dell'interiorità, dell'invisibile, del trascendente nel linguaggio specifico dell'arte. Sulla base di tali esperienze, in tempi recenti si è assistito a un nuovo confronto della committenza ecclesiastica con le prospettive culturali più attuali. Anche in relazione alle modalità con cui le istituzioni si sono rapportate alle forme dell'arte contemporanea, i testi qui raccolti e organizzati intendono offrire materia di riflessione all'interno di un percorso in atto. Oltre a riferirsi ad alcune figure che hanno segnato la storia del confronto con i temi del sacro e dello spirituale nel corso del Novecento - da Gaetano Previati ai futuristi, da Vasilij Kandinskij a Lucio Fontana - sono oggetto di approfondimento artisti come Pietro Coletta, Hidetoshi Nagasawa, Mimmo Paladino, Claudio Parmiggiani, Mario Raciti, Ettore Spalletti, Valentino Vago, William Xerra, tra coloro che in vario modo hanno interpretato temi e soggetti sacri attraverso opere scaturite dal loro percorso creativo.
È raro incontrare i termini "religiosa", "sacra" o "devozionale" tra i diversi aggettivi che accompagnano il sostantivo "fotografia". Si tratta di una tipologia non rilevata, a dispetto di un fenomeno che si presenta fin dalle origini di dimensioni rimarchevoli. Questo volume si prefigge di porre l'accento non tanto sulla fotografia come fonte per la storia religiosa, quanto sul suo utilizzo nei processi di promozione del culto dei santi e nella prassi devozionale: l'introduzione della macchina fotografica nella sfera del sacro e la sua evoluzione in una pratica di "massa" determinano l'inserimento dell'immaginario agiografico nell'universo mediatico in un processo di contaminazione tra sacro e profano. Il volume si caratterizza per un approccio marcatamente interdisciplinare in cui la prospettiva storico-religiosa e agiografica si confronta con la storia della fotografia, l'antropologia, la sociologia, la storia dell'arte.
Per Federico Cesi, fondatore dell’Accademia dei Lincei, il «natural desiderio di sapere» corrisponde a un modo plurale di pensare la conoscenza e il suo ruolo sociale e politico di fronte all’incertezza innescata dall’allargamento del mondo, dal profilarsi di nuovi modi di comprendere i rapporti fra uomo e natura, dal confronto con una vita di corte, dominata dall’interesse individuale.
Centro della rivendicazione universalistica pontificia e spazio comunicativo fra vecchi e nuovi mondi, Roma emerge come teatro barocco di un progetto di capitalizzazione dei saperi, che mobilita appassionati virtuosi, filosofi “straccioni”, medici mediatori, agguerriti pittori, scultori in gara con la natura, missionari in cerca di legittimazione.
Attraverso il racconto dell’affascinante storia del Tesoro messicano – imponente volume tardivamente pubblicato nel 1651 – si ricostruisce un cantiere di produzione naturalistica, fra sconosciuti exotica e artefatti stranamente familiari, scambi e competizioni, conflitti e negoziazioni, individuando nei saperi una lente per comprendere la dinamica storica.
Come ben sapevano i predicatori medievali, delle due grandi leve del comportamento umano - la paura del castigo e la speranza del premio - la più efficace era la prima. Di qui, allora, lo sviluppo di immagini dell'Inferno che fra Tre e Quattrocento sono sempre più complesse e crude, così da turbare gli animi e smuovere le coscienze. Ma in che direzione? E a quale scopo? La domanda è assai meno scontata di quanto non possa apparire. Dal momento, infatti, che gli exempla negativi avevano senso solo in funzione di quelli positivi, il grande teatro dei reprobi si prestava anche ad una lettura al contrario, in cui le figure dei peccatori, lungi dal costituire solo un terribile ammonimento, indirizzavano il fedele verso atteggiamenti speculari e opposti a quelli puniti. La critica si faceva insomma proposta, complici le scelte iconografiche di artisti e committenti (comunità, privati, confraternite, ordini religiosi, ecc.), che attraverso il tema dell'Inferno potevano esprimere i propri ideali di convivenza civile.
Il nome e l'attività antifascista di Lucia Sarzi sono ben noti a chi ha letto "I miei sette figli" di Alcide Cervi o ha visto "I sette fratelli Cervi" di Gianni Puccini. A lei si deve molto del radicamento della rete clandestina che, tra case di latitanza, antifascisti e partigiani, rese possibile la Resistenza in Emilia. Attrice itinerante, giovanissima (era nata l'8 novembre 1920) entrò in contatto con i comunisti di Parma nell'estate 1940; nel novembre 1941 la famiglia Cervi scoprì lei e il suo pensiero antifascista grazie, appunto, al Teatro in cui recitava; nel 1943 accompagnava Giorgio Amendola nel suo percorso clandestino nel nord Italia e collaborava alla stampa e alla diffusione de «l'Unità». Le lettere che Lucia si scambiò con un gruppo di giovani di Lentate sul Seveso fra la fine del 1938 e l'inizio del 1940, conservate all'Archivio centrale dello Stato perché sequestrate dalla polizia, ci aiutano a comprendere la formazione culturale e politica di una ragazza di 18-19 anni e a collocare in quei mesi le radici del suo antifascismo e della sua attività clandestina.
Sulla sommità dell'Aventino si erge la basilica di Santa Sabina, tra i più significativi monumenti tardoantichi. Il suo ingresso principale è costituito da un ampio nartece, caratterizzato dalla presenza di opere straordinarie, quali l'antica porta lignea, la decorazione a imitazione del marmo di V secolo e l'imago altomedievale della Theotokos. Il nartece, per anni trascurato negli studi, doveva essere, in origine, uno degli ambienti di maggior fasto e importanza dell'intero edificio e, soprattutto, non un semplice spazio a servizio delle opere ma il luogo per cui queste erano state pensate. Destinato con ogni probabilità principalmente a catecumeni e penitenti, doveva essere una vera e propria zona liminare, mondo tra i mondi, zona di transito fisico e spirituale. Il presente volume indaga questo luogo a tutto tondo, con un'attenzione particolare alla sua storiografia, all'archeologia del monumento e alle sue decorazioni, rivelandone la facies tardoantica straordinariamente conservata nella sostanza. Si propone al lettore uno sguardo sinergico, volto a mostrare come la coesistenza dei diversi media permetta una più esaustiva comprensione dello scenario artistico tardoantico.
Il volume offre un quadro della committenza artistica a Roma nel corso di tutto il Medioevo attraverso uno studio dettagliato sulle figure dei singoli pontefici che ne furono i principali promotori. I fatti artistici, analizzati dal punto di vista della committenza papale, non solo consentono di capire il significato primario connesso alla loro funzione, ma ricreano anche un'immagine speculare del contesto culturale di appartenenza. L'ambito cronologico, circoscritto fra il pontificato di Silvestro I (314-335) e quello di Martino V (1417-1431), lascia intravedere nel comportamento di molti pontefici la persistenza di una mentalità che, da un atteggiamento iniziale di semplice patronato e protezionismo, si tramuta nel tardo Medioevo in vero e proprio mecenatismo. I saggi raccolti, ricchi di spunti e suggestioni, pongono sotto la giusta luce aspetti meno noti di una città come Roma, quale centro ideale della cristianità e termine imprescindibile di riferimento per le sue valenze storico-artistiche.
Il famoso iconoclasmo bizantino ha influenzato moltissimi movimenti iconoclastici, dalla riforma inglese e dalla rivoluzione francese al movimento talebano, fino all'Isis in tempi recentissimi, tutti incentrati sulla distruzione di immagini come forte dichiarazione politica. Tuttavia, esso è stato sfortunatamente frainteso: questo libro mostra quanto e perché la discussione riguardo alle immagini fosse più complicata e più interessante di quanto non si sia immaginato. Osserva il modo in cui le icone divennero così importanti, chi vi si oppose e come la controversia si risolse all'incirca tra il 680 e l'850. Molte convinzioni ormai largamente accettate riguardo all'"iconoclasmo" - ad esempio il fatto che si trattasse di un'iniziativa imperiale e della causa di una generale e diffusa distruzione di immagini, che fosse avvenuto in un periodo di ristagno culturale - si riveleranno sbagliate. Gli anni dei dibattiti sulle immagini videro infatti progressi tecnologici e mutamenti intellettuali che, accanto ad un'economia in crescita, si conclusero con l'emergere di un impero particolarmente forte e stabile: la Bisanzio medievale.
La basilica del Verano, costruita sulle sepolture di santi martiri tra i quali spiccava Lorenzo, è stata concepita fin dalla fondazione come meta imprescindibile di pellegrinaggio. Nel corso dei secoli, il suo prestigio è stato costantemente riaffermato, accrescendo il patrimonio di reliquie e riadattando le sue strutture alle aspettative dei pellegrini e ai bisogni di rappresentanza della Chiesa trionfante del Medioevo centrale romano. Il volume ripercorre la storia edilizia del complesso monumentale dall'epoca paleocristiana, mettendo a fuoco il momento saliente dell'intervento che, a cavallo del 1200, portò all'inversione dell'orientamento liturgico e a un eccezionale ampliamento mediante l'aggiunta di un nuovo corpo basilicale, realizzando un edificio che costituisce la testimonianza meglio conservata dello splendore dell'attività edilizia e dell'arte cosmatesca di Roma papale all'apice del suo potere.
Nel corso degli ultimi decenni numerosi studi sono stati dedicati alla devozione domestica, intesa come insieme di pratiche, oggetti, spazi attraverso i quali i fedeli sperimentavano una religiosità intima e personale, vissuta entro i confini privati delle proprie dimore. Questo volume si pone in continuità con le ricerche pubblicate finora, e tuttavia amplia la prospettiva d'indagine verso contesti geografici o cronologici in precedenza trascurati, o in direzione di prodotti artistici generalmente negletti, come maioliche di piccole dimensioni, oppure oggetti di più comune uso liturgico come i reliquiari. I protagonisti delle vicende qui indagate compongono un mosaico che rispecchia l'intero tessuto sociale dell'epoca, spaziando da famiglie di nobile stirpe come i Carraresi e i Pallavicino, a ricchi borghesi come Enrico Scrovegni, a personaggi di più umile origine; numerose figure femminili, committenti, fruitrici, proprietarie di opere, emergono inoltre dall'oscurità, come devote ferventi e come responsabili dell'educazione religiosa dei figli.
La basilica ambrosiana di Milano, edificata per la prima volta negli anni di Ambrogio (374-397) e ricostruita radicalmente alla fine dell'XI secolo, è uno straordinario luogo di memoria e di presenza di oggetti e monumenti medievali. Attraverso lo studio di alcune celebri opere in essa conservate, tra cui il sacello di San Vittore in Ciel d'Oro, l'altare d'oro e il ciborio di Sant'Ambrogio, il libro si propone di indagare l'interazione tra la topologia dell'edificio e i suoi oggetti, le reliquie attorno alle quali l'Ambrosiana è costruita, e la nozione di "migranti". In altre parole si vuole analizzare come, sulla lunga durata, alcuni oggetti diventino riflesso delle reliquie, e la santità materiale che da essi deriva venga usata come strumento di esclusione e intrusione in un contesto etnico problematico. Il volume presenta un ricco apparato iconografico, frutto di un'apposita campagna fotografica.