In questo volume l'autore chiude strappi e colma lacune, suggerisce con discrezione la rete delle relazioni, le reali e le istituzionali, tra i soggetti coinvolti. E disegna le coordinate dell'ambizioso progetto di chiudere il circolo tra il Gymnasium e la comunità cittadina, nei limiti e negli eccessi ricostruendo la vicenda travagliata del 'privilegio' che perde in estensione mentre cerca miglior fondamento nella qualità, specie laddove come nella medicina e nell'economia più acuto è lo scontro, diretto a promuovere in diritti i bisogni, e più tenace l'interposizione ora ideologica, ora corporativa dei filtri.
L’immagine della “donna orientale”, le esotiche narrazioni di primitivi sensualismi e barbare segregazioni accompagnarono la nascita dei movimenti femminili europei tra Otto e Novecento. L’Oriente era l’altro da sé che illuminava i progressi intellettuali, sociali e civili delle donne occidentali, ma dall’Oriente veniva anche la conferma di una “schiavitù femminile” universalmente condivisa.
Intorno al tema della donna ridotta a oggetto sessuale l’emancipazionismo femminile italiano dei primi decenni postunitari costruì la sua critica ai modelli di genere, alla minorità giuridica femminile, all’esclusione delle donne dalla cittadinanza. Una critica alle ambiguità del progresso occidentale che favorì il delinearsi di una posizione fermamente anticoloniale, sorda alla retorica della civilizzazione tanto più se portata con le armi.
Questo libro intende fornire un contributo alla conoscenza della cultura femminista italiana ricollocandola nel contesto coloniale in cui nacque e si diffuse, nella convinzione che anche in Italia l’espansione africana abbia influito sulle modalità culturali e associative del movimento delle donne.
Le radici dell’anticolonialismo femminista, la campagna per il ritiro dall’Africa all’indomani di Adua, ma anche i cambiamenti di rotta, le diverse strategie di legittimazione culturale e sociale maturate a inizio Novecento, i silenzi e gli entusiasmi di fronte all’impresa di Libia costituiscono i diversi capitoli di questa “storia coloniale” del primo femminismo italiano.
descrizione
Catia Papa è assegnista di ricerca all’Università degli Studi Roma Tre e svolge attività di ricerca presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso. È autrice di vari articoli sulle culture giovanili e femminili nell’Italia liberale e del volume Intellettuali in guerra. «L’Azione» 1914-16 (Milano 2006)
Il volume ricostruisce i tentativi di realizzare una bibliografia locale nel Trentino del Settecento. Quella che a prima vista potrebbe sembrare una vicenda per molti versi marginale assume, invece, una certa rilevanza in quanto si intreccia con la riscoperta e la definizione di un'identità territoriale prima che politica, linguistica e culturale. Protagonista di queste pagine è il roveretano Jacopo Tartarotti (1708-1737), fratello minore del più celebre Girolamo, che, pubblicando nel 1733 il suo Saggio della Biblioteca Tirolese, propose agli studiosi locali, e non solo, un primo abbozzo di una bibliografia di scrittori trentini che rimase al centro (con riferimenti anche fortemente polemici) del dibattito culturale fino ai primi dell'Ottocento. Ecco dunque il significato di riprodurre le pagine del saggio in edizione anastatica. Se il Trentino del Settecento ha già offerto numerosi e interessanti spunti per la ricerca storica e per la ricostruzione di fondi librari antichi, è la prima volta, invece, che viene indagato da un punto di vista prettamente bibliografico.
Il potere di giudicare e condannare a una pena è ancora più assoluto di quello di uccidere, perché pretende di essere conforme al vero e al giusto. Per questo quasi mai le dittature più feroci rinunciano al dibattimento in aula, anche quando esso viene ridotto a messinscena o a caricatura. Una ragione di più per rammentare che il processo, simbolo estremo della tensione tra la libertà degli individui e i loro vincoli verso la comunità, si rivela puntualmente uno strumento capace di illuminare un’intera epoca. Dei grandi eventi nei tribunali rimangono spesso nella memoria collettiva solo i verdetti e una radicale semplificazione delle ragioni che li determinarono. Partendo dal racconto sintetico, rigoroso ed essenziale di dieci processi, riguardanti personaggi molto diversi tra loro, questo libro cerca di ricostruire cosa di volta in volta fosse veramente in gioco. E aiuta a capire, per esempio, come Socrate abbia costruito la coscienza occidentale, quale mistero potesse celarsi dietro l’identità di Gesù, perché gli Stati Uniti abbiano smentito spesso la loro vocazione di culla delle libertà, quali torti ebbe Galileo nel rivaleggiare teologicamente con la Chiesa, quanta carica rivoluzionaria possedesse Giovanna d’Arco, in che senso Norimberga abbia salvato il popolo tedesco. E perché Berlusconi meriti la definizione di ‘Antisocrate’.
Remo Bassetti è nato a Napoli nel 1961. Notaio e giornalista, è ideatore e direttore della rivista Giudizio Universale. È autore dei saggi Storia e storie dello sport in Italia (Marsilio), Derelitti e delle pene. Carcere e giustizia da Kant all’indultino (Editori Riuniti), Contro il target (Bollati Boringhieri), e del romanzo Stanno uccidendo i notai (Cairo Editore).
Con i suoi maestosi interni d’acciaio, la corazzata Roma è l’unità più temuta del Mediterraneo. Poco prima dell’alba del 9 settembre 1943 lascia il porto di La Spezia. A bordo ci sono oltre duemila uomini. Improvvisamente in cielo viene avvistato uno stormo di Dornier. Qualcuno urla: «Sono tedeschi!» È allarme aereo. Una prima bomba cade in mare. Pochi minuti dopo la Roma viene però colpita in pieno e comincia a sbandare. Una seconda bomba la ferisce a morte. Si sente un boato prolungato e in pochi secondi è l’inferno. Dal ponte torce umane si buttano in acqua prima che la nave si capovolga e le trascini con sé. Tra le 1393 vittime di quel drammatico pomeriggio di settembre c’è anche l’ammiraglio Carlo Bergamini, amatissimo dai suoi uomini, l’ufficiale più elevato in grado di tutte le forze armate caduto in combattimento.
Ma la storia della Roma non finisce con il suo affondamento. I naufraghi vengono trasportati alle Baleari. Qui le navi saranno internate e i superstiti trasformati in merce di scambio. La loro vita resterà a lungo come sospesa, in difficile equilibrio tra gli opposti interessi di un’Italia spaccata in due, la Spagna e gli anglo- americani. Eppure, incredibilmente, gli uomini della Roma ricominceranno a vivere, forti di un’amicizia inossidabile, quella che nasce tra chi sa di essere un sopravvissuto. Tra loro Italo Pizzo, autore di un diario che il nipote Andrea Amici ha integrato con rare testimonianze regalandoci un racconto in presa diretta di quel che accadde realmente a bordo, della vita da esuli tra amori e aneddoti intriganti, fino al ritorno a casa, in Liguria, dopo quasi due anni.
Il sangue di decine di migliaia di vittime
non può riposare in pace.
Ritorna in superficie.
“Rajchman è un sopravvissuto di Treblinka. Ha visto tutto, sentito tutto, provato tutto. Ha il coraggio di deporre per la Storia. Il suo racconto è di una densità che dà i brividi. Credo di aver letto molte opere su questo stesso soggetto. E tutte sono dolorose. Alcune sollecitano dei dubbi sull’uomo, altre sul suo creatore. Quella di Rajchman, con la sua semplicità commovente, apre degli orizzonti nuovi nell’immaginario del Male.[...] Il viaggio angosciante verso l’Ignoto. L’arrivo. L’abbandono delle ultime proprietà. La separazione delle famiglie. Le urla. Il sadismo degli ‘assassini’ e la tortura umiliante delle vittime. Il sistema funziona alla perfezione. Tutto è previsto, programmato. Gli uccisori uccidono e gli ebrei muoiono. Rajchman è restato un anno a Treblinka: dal 1942 al 1943, fino alla rivolta eroica dei disperati, cui aveva partecipato. In questo lasso di tempo, nell’odore pestilenziale permanente, ha conosciuto ciò che nessuno dovrebbe vedere: lavorava lì dove le vittime, uomini, donne e bambini, andavano verso la morte. Era lui l’ultimo essere umano che le donne vedevano prima di soffocare nelle camere a gas.[...] Come ha fatto Rajchamnn a vivere e sopravvivere con i morti adattandosi così velocemente a situazioni così pietrificanti? Nel giro di ventiquattro ore, è colui che taglia i capelli ai condannati. Poi quello che smista i loro vestiti, frugando nelle tasche segrete. A un certo punto si gira verso un suo compagno e dice: “Ieri, a questa stessa ora, mia sorella era ancora viva.” Poco dopo, trova il suo vestito. Ne strappa un lembo, che tiene con sé fino alla fine.”
Fossoli, frazione di Carpi, fu lo scenario "inconsapevole" di una delle pagine più cupe della nostra storia: qui fu attivo, tra il dicembre 1943 e i primi giorni dell'agosto 1944, un campo di concentramento in cui vennero reclusi 2844 ebrei arrestati in tutta l'Italia centrosettentrionale sotto l'occupazione nazista.
In quel periodo nel nostro paese giunse al culmine l'offensiva fascista contro gli ebrei che, iniziata con le leggi razziali del 1938, conobbe una brutale accelerazione con la Repubblica sociale. I governanti italiani scelsero infatti di adeguare la propria politica antiebraica a quella dell'alleato-occupante, che aveva già messo in atto autonomamente una serie di retate in diverse città nell'autunno del 1943. Il 30 novembre emanarono dunque un provvedimento che prescriveva l'arresto degli ebrei, cui sarebbe stato confiscato ogni bene, e il loro trasferimento in un unico luogo, individuato nel complesso di Fossoli, in precedenza utilizzato come campo per prigionieri di guerra e destinato anche ad altri internati, come i detenuti politici.
Le autorità di Salò e quelle del Terzo Reich definirono una sorta di divisione dei compiti: gli italiani si occuparono dell'arresto e dell'internamento degli ebrei; i tedeschi, che dal marzo 1944 assunsero anche formalmente il comando del campo di concentramento, ne organizzarono la progressiva deportazione verso i lager in Germania e Polonia, attuata con modalità disumane.
Liliana Picciotto, studiosa della persecuzione antiebraica, avvalendosi di un ricco apparato di documenti, in parte inediti, fa rivivere questa terribile vicenda attraverso le voci delle vittime, dei carnefici e degli "spettatori". Alle testimonianze angosciate dei prigionieri fanno da contrappunto l'impassibilità burocratica dei funzionari italiani e l'indifferenza interessata dei fornitori di autobus e vettovagliamento, che non si fanno scrupoli nel concludere affari persino in occasione di quello che per la maggior parte dei deportati sarà il viaggio senza ritorno verso le camere a gas.
L'alba ci colse come un tradimento, oltre a rendere un omaggio ai deportati di Fossoli, di cui si ricordano tutti i nomi e la sorte, mette in risalto una tragica verità: nella persecuzione degli ebrei italiani le autorità della Repubblica sociale non ebbero il ruolo di riluttanti comprimari, ma quello di consapevoli e zelanti protagonisti.